Era il 1754 ed eravamo nel pieno della guerra tra Ciliverghe e il parroco, ostinato oppositore alla divisione dei due paesi (o delle due parrocchie, che allora era più o meno la stessa cosa). Già abbiamo visto, nei numeri precedenti, i dissidi per i funerali. Ora la guerra si arricchisce di un altro capitolo, grazie al quale possiamo ricavare notizie interessanti su come veniva celebrata la festa del patrono San Filippo Neri.
Dopo aver rimuginato per tutto il tragitto, arrivato a Virle il Cornale non se la sentì di usare quel linguaggio così crudo che i suoi compaesani gli avevano, come si suol dire, messo in bocca. Facevan bello, loro, che se ne stavano a casa; la faccia, però, ce la doveva mettere lui!
E fu così che escogitò una patetica scusa.
Gli disse che, forse, non era il caso di cantar messa solenne, quell’anno: ristrettezze economiche avevano impedito di acquistare la polvere da sparo per i soliti mortaretti, non avrebbero potuto organizzare il succulento pranzo per tutto il clero di Virle, che gli spettava di diritto dopo le funzioni religiose, la banda, poi, nemmeno a parlarne…. Piuttosto di far ridere la gente forestiera, concluse il Cornale, meglio fare a meno di festeggiare il patrono. Almeno per quell’anno.
Il parroco, Giuseppe Simoni, che non era per niente fesso, non credette nemmeno a una parola che aveva proferito quell’imbarazzantissimo fabbriciere.
E fu così che, nonostante fosse stato scoraggiato, ancora di buon mattino di quel 26 di Maggio 1754, si recò a Ciliverghe deciso ad andare fino in fondo.
Appena arrivato, cerca dei fabbricieri e, naturalmente, il primo che incontra è proprio il nostro Cornale. Subito gli chiede che gli vengano portati i paramenti sacri, perché lui, il parroco, non intende rinunciare alla messa solenne.
Era come se gli avessi dato una stilitata, scriverà il prete nel suo diario. Il fabbriciere rispose che si sarebbe dovuto consultare con gli altri, se ne andò e non si fece vedere per tutto il giorno.
Il curato (quello che, all’inizio, aveva fatto buona impressione perché sembrava fosse dalla parte dei Ciliverghesi…) stava confessando le donne e c’è da giurare che avrà fatto di tutto per allungare i tempi. Ma il parroco, il tempo ce l’aveva.
Finalmente, il curato diede l’assoluzione all’ultima peccatrice e non poté più esimersi dal recarsi in sacrestia per aiutare il parroco. Fra i due ci fu un gelido silenzio e, terminata l’operazione di vestizione, il curato se ne andò, senza farsi più vedere, pure lui, per tutto il giorno. Vedremo poi dove finiranno tutti… Arrivano, nel frattempo, a dan man forte al parroco gli altri sacerdoti di Virle per la concelebrazione ed arriva pure l’ora della messa solenne. Oddio, proprio solenne…: mancava la musica, mancavano i paramenti e mancavan pure le candele. Sì, perché, appena prima che iniziasse la funzione, i fabbricieri andarono a spegnere le quattro candele che ardevano sull’altare e se le portarono via perché, quelle, eran loro. Dei fedeli presenti, molti abbandonarono la Chiesa e se ne andarono anch’essi a raggiungere il Cornale e il curato. Nemmeno la presenza di un amministratore del Comune (di Virle), il quale ordinò al sacrestano di tirar fuori dagli armadi le candele che usavano per recarsi dai moribondi per il viatico, riuscì a procurare al povero prete due dita di moccolo: per tutta risposta, il sacrestano se ne andò pure lui, non facendosi più vedere, pure lui, per tutto il giorno. Buon per il parroco che ci fosse presente il presidente di una delle tante congregazioni, che era di Virle, e che aveva le chiavi del cassetto dove si trovavano le candele dei
confratelli ciliverghesi. A questo punto, però, i fabbricieri portano via i candelabri e a quei
poveri preti non rimane che concelebrare tenendo ognuno la sua candela in mano.
Visto che avevano celebrato, sia pure in modo rocambolesco, la messa, erano pure decisi a non tornare a Virle a stomaco vuoto e furono fortunati nel trovare una buona anima che li ospitò.
“…mi portai col mio clero di Virle non alla casa del curato, che già erasi absentato, ma in casa di persona benevola, e tutta del nostro partito, da cui benignamente accolti, godemmo con giocondità il nostri pranzo provveduto però a spese nostre comuni, senza arrecar al buon ospite altr’incommodo, che del suo alloggio…”
Ma che fine avevano fatto il Cornale, il curato, il sacrista e tutti gli altri? Ce lo dice il parroco stesso: “…si erano portati tutti ad un fenile, lontano da detto Oratorio di San Filippo un miglio e forse più, per dar pranzo, per quanto mi vien suggerito, a quei sacerdoti forestieri ch’erano stati invitati con le loro messe…”
Anche se non lo specifica, è facile immaginare che quel fenile di cui parla doveva essere il portico del caseggiato ad Est della Villa Mazzuchelli e le messe dovevano essere state celebrate nell’Oratorio del conte Giammaria, grande patrocinatore della causa ciliverghese.
Intanto il parroco aveva terminato di pranzare in casa della buona pecorella (o del ruffiano traditore, a seconda dei punti di vista): sullo stomaco però, oltre al cibo, gli doveva essere rimasto anche l’onta dell’offesa. E decide di non mollare. Si avvicina l’ora dei Vespri ed impone al campanaro di avvisare mediante il suono delle campane. Ai primi rintocchi, anziché i fedeli, si fa avanti un Albini, detto Boccone, il quale era di tutt’altra pasta rispetto al Cornale. Fucile in spalla, si avvicina al campanile gridando al campanaro di smetterla di suonare e minacciandolo di morte, ma questi, prudentemente, era salito più in alto possibile, chiudendo a chiave la porta. Spalleggiato da altri, anch’essi armati di fucile, si mette davanti all’ingresso della Chiesa per scoraggiare eventuali fedeli
ad assistere ai Vespri. In quel clima, e con la chiesa vuota, si è celebrata la funzione. Terminata, finalmente il clero virlese se ne va. Non senza, però, aver subito altre ingiurie da parte di quelli del luogo. E c’è da dire che gli andò ancora bene. Un paio di settimane più tardi, quando la stessa situazione si ripeterà con la festa del Corpus Domini (era il 13 di Giugno), le invettive sfoceranno in violenze: un ciliverghese (non sappiamo se l’Albini o altri) penserà bene di colpire con il calcio del fucile il carrettiere che aveva accompagnato in paese il parroco. E la ritirata, in quell’occasione, sarà ben più tragica, e umiliante, rispetto a quella relativa alla festa del Patrono.
Fin qui, la cronaca.
Vediamo, però, con l’aiuto di altri documenti trovati nell’archivio parrocchiale di Ciliverghe, di conoscere meglio come i nostri antenati celebravano la festa di San Filippo Neri e di ricostruire gli aspetti più salienti. Cominciamo, intanto, con lo sfatare un luogo comune che certe pubblicazioni,
sponsorizzate in questi anni dall’amministrazione comunale di Mazzano, hanno inventato. Non è vero che la scelta di San Filippo Neri, quale patrono del paese, fosse un atto di riconoscenza verso la famiglia Mazzuchelli, che aveva un religioso, Ettore, padre dell’ordine filippino. La nostra chiesa risulta dedicata al santo già nella visita pastorale del vescovo Dolfin, nel 1702. I Mazzuchelli arrivano a Ciliverghe vent’anni dopo, nel 1722. Dalla cronaca del parroco, fatta nel 1754, risulta che già da molti anni gli abitanti del paese celebravano solennemente la festa del patrono.
“…essere stato continuato uso di celebrarsi dal parroco (di Virle) messa solenne nell’Oratorio di San Filippo in Ciliverghe, il giorno della sua festa con l’intervento di tutto il clero di Virle, coll’applicazione delle loro messe ad onore del Santo, passandoli alli medesimi da codesti deputati l’elemosina di soldi 50 per cadauno, di quattro lire al parroco, oltre un succinto pranzo dato a tutti, quel giorno, dal curato. Come pure l’uso d’esponere quella mattina il Venerabile fino dopo la terminazione della Messa solenne; dopo il pranzo, poi, cantare li sacri vespri compagnando tutte queste funzioni sacre con spari di mortaretti e talvolta con trombe e tamburi insieme…”
L’esposizione del Venerabile, naturalmente, era la reliquia di san Filippo, contenuta in una teca, che già la Chiesa possedeva e che verrà ufficialmente riconosciuta come autentica nel 1758.
La statua del santo, invece, non c’era, perché ancora nel 1895 i Ciliverghesi erano costretti a prenderla a nolo per una somma di cinque lire.(A.p.C., tit. V, cl.8, F. 8, cart. 5) Dai bilanci del 1808 (che sono i più antichi conservati in archivio) fino all’anteguerra, la voce spese per la festa del patrono appare tutti gli anni. Già da allora, era prevista una mancia per l’organista e il levamantici (l’organo era stato installato alla fine del ‘700) e per il sacrestano, il quale doveva addobbare la chiesa servendosi di materiale in parte preso a nolo.
Non mancava, poi, l’aspetto profano: spari di mortaretti, suono della banda, bancarelle, giostre…
Non si poteva, di certo, farsi rider dietro dalla gente che veniva dai paesi vicini, come aveva detto il fabbriciere Cornale, organizzando una festa in sordina, magari meno eclatante di quella che facevano gli odiati Virlesi o quelli di Molinetto (a proposito: ma l’avranno fatta ancora la festa, quelli di Molinetto, per il loro patrono? Boh!) Alla faccia dell’umiltà e dello spirito filantropico tipico di San Filippo Neri.
A proposito di San Filippo: siamo sicuri che i Ciliverghesi del passato e quelli del presente conoscano la vita di questo santo e la sua opera? A questo punto, però, poco importa: ci pensi don Luigi a scrivere due righe a parte, se proprio ci tiene.La cosa importante è stata quella aver fatto vedere a quelli di Virle che quelli di Ciliverghe, quando qualcuno pesta loro i piedi, non sono disposti a porgere l’altra guancia. Con buona pace dell’amore verso il prossimo, predicato dai santi..