Fino al Concilio Vaticano II, il Concilio di Trento (1545-1563) rappresentava uno spartiacque nella storia della Chiesa, tant’è che molti storici parlano di una Chiesa pretridentina e postridentina.
Questo Concilio fu rivoluzionario non solo perché, fallito il tentativo di riconciliazione con Lutero, diede avvio ad una radicale riforma dei costumi della Chiesa, ma anche perché impose regole che durarono secoli e molte sono tutt’ora in vigore.
Fra queste, le visite pastorali. Ce n’era proprio bisogno. Molti religiosi risultavano titolari di parrocchie pur non avendo mai posto piede nella chiesa del luogo: comperavano il titolo per godere delle rendite, poi, a celebrare, vi mandavano qualche chierico, naturalmente sottopagato.
Fosse stato solo questo! Molti preti avevano in casa delle donne che, ufficialmente, risultavano serve (non esisteva ancora il termine perpetua: verrà usato solo alla metà del 1800, con la pubblicazione dei Promessi Sposi); di fatto, però, erano ben più di semplici colf…
Fu proprio il Concilio di Trento a stabilire che le governanti dei parroci dovessero aver superato il quarantesimo anno. Dispiace per le quarantenni di oggi. A loro discapito, però, occorre ricordare che, una volta, si invecchiava molto prima. Ebbene, la visita del vescovo nei paesi della diocesi doveva servire a controllare, diciamo così, lo stato di salute delle parrocchie, cominciando dai preti, poi si passava ai fedeli e, infine, allo stato di conservazione degli edifici. Alla fine, il vescovo stendeva una relazione, all’interno della quale emanava i vari decreti, che dovevano essere rigorosamente rispettati. Pena, la scomunica o la chiusura dell’edificio. Queste relazioni sono tanta manna per noi, perché, oggi, ci consentono di ricostruire la storia dei nostri edifici religiosi. Gli originali delle relazioni si trovano nell’archivio vescovile di ogni diocesi.
La prima visita pastorale a Ciliverghe avviene nel 1573 ed è opera del vicario del vescovo Bollani, Cristoforo Pilati. La relazione riguarda la parrocchia di Virle, cui Ciliverghe apparteneva. Sappiamo, da questa relazione, che il prelato arrivò a Ciliverghe per salire sul Monte e controllare la chiesetta di san Valentino, la quale, allora, era dedicata al Sangue di Cristo. Non doveva essere in buonissimo stato di conservazione, perché il prelato impose di riparare la chiesa e chiudere le fessure. Vi ritornerà cinque anni più tardi. Più nessun accenno alle fessure, ma un’annotazione importante: il prelato scrive che la chiesa fu costruita dagli uomini del paese. Scendendo dal Monte, si fermò davanti alla cappella di san Rocco, annotando che di essa si erano presa cura gli Appiani, come ex voto per aver superato indenni la peste dell’anno precedente.
Nel1580 aguidare la visita era, niente meno, che un incaricato di san Carlo Borromeo, Luigi di San Pietro.
Occorrerà aspettare il 1601 perché alla guida della visita ci sia un vescovo e non più i suoi aiutanti. Sarà monsignor Marino Giorgi.
Nel 1648 il vescovo Marco Morosini, dopo aver visitato la chiesa sul Monte, dedicata, nel frattempo, a Santa Maria della Neve, annota l’esistenza di una seconda chiesa, da poco eretta: quella di san Carlo, appartenente alla famiglia Paratico. È, tanto per intenderci, la chiesa che poi passerà ai Mazzuchelli e che si trovava nell’ala est della Villa attuale (che ancora non era stata edificata).
Seguono, poi, altre visite nei due oratori, nel 1656, nel 1667, nel 1673, nel 1683.
Finalmente, nel 1702, la prima citazione dell’attuale parrocchiale. Da nemmeno vent’anni era iniziata la costruzione. Di sicuro c’era l’abside, ottagonale e non circolare come appare oggi, e l’altare maggiore. Noi l’abbiamo già chiamata parrocchiale ma, in realtà, era ancora un piccolo oratorio, dipendente dalla parrocchia di Virle.
Nove anni dopo, nel 1711, il vescovo Badoer stende una relazione più ampia, raccomandando di riparare il tetto e, soprattutto, di impedire l’uso di confessare le donne fuori dal confessionale.
La visita del vescovo Fortunato Morosini si distingue dalle altre perché la relazione è stesa, per la prima volta, in lingua volgare. Siamo nel 1724. Le notizie di maggior rilievo riguardano la presenza di un curato e di un cappellano.
Dalla relazione del 1760, opera del vescovo Molino, apprendiamo che nella chiesa c’è la vasca battesimale e l’altare del sacro Cuore. Ma, quel che più è importante, è che la chiesa, ormai, è diventata parrocchiale!
Solo dalla relazione del 1817, opera del vescovo Gabrio Nava, viene documentata l’esistenza del terzo altare, quello della Madonna del Rosario, e della pala dell’altare.
“La chiesa parrocchiale, che non è molto grande, ed è piuttosto antica, ha però tutti e tre gli altari di marmo, il primo de’ quali col titolo di S. Filippo Neri, il secondo della SS. Vergine del Rosario, il terzo dell’addolorata. La pala del coro non è di cattivo pennello. La parrochiale ha una bella torre e alta con tre campane. La sacristia è angusta e manca di camerini per confessare. Parroco Giuseppe Bonomini, anni 39 da Cimbergo, coadiutore Piardi Ermenegilgo d’anni 34. Vi sono anco due chierici, quali però non hanno pur anco la tonsura e sono di altro paese, dimoranti in Ciliverghe per le scuole. Le anime in tutto sono 738, di comunione 436”.
In questa visita, inoltre, si cita l’oratorio dei Caldana, già esistente dal 1748.
Le visite nel 1800 sono in tutto quattro.
Dopo quella di Gabrio Nava, segue, nel 1939, quella del vescovo Ferrari, in cui si accenna, per la prima volta alla presenza di una scuola maschile e femminile, per le prime due classi e di un’ostetrica.
Nulla di particolare nella visita del vescovo Verzieri, se non l’annotazione della scomparsa dell’oratorio di san Carlo, appartenente ai Mazzuchelli.
Nella relazione del 1894, quella ad opera di mons. Corna Pellegrini, si annota, non senza scandalo, che a Ciliverghe circolano dei quotidiani, quali la Provincia, la Sentinella e il Corriere della Sera. Chissà chi li avrà letti…
Bisognerà, invece, aspettare il 1925 per avere la consacrazione della chiesa, ad opera del vescovo Giacinto Gaggia.
Abbiamo parlato, finora, delle relazioni sugli edifici. E sui preti? E sui parrocchiani? Non c’è molto da dire. Fino al 1757, il clero era quello di Virle e non risultano situazioni tali da suscitare scandalo ed essere soggette a decreti. Stesso discorso per i fedeli ciliverghesi. A parte l’abitudine di menare il prete di Virle durante il periodo della rivendicazione dell’autonomia (attorno al 1750), per il resto i
nostri antenati sono sempre stati tranquilli. Direbbe don Camillo: “Quando dovevano sparare a qualcuno, usavano i pallini piccoli…”. Sempre con delicatezza, però.
Danilo Agliardi